Il gattopardo – la mafia – il padrino. La mafia in letteratura e nel cinema
Lezione di Maria Sepa

Sinossi

Breve analisi del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (1958) e dell’omonimo film di Luchino Visconti (1963) come testi significativi per comprendere la situazione storica, sociale e culturale in cui nasce la mafia siciliana, e come modelli per le successive rappresentazioni cinematografiche della mafia, in primis del Padrino di Francis Ford Coppola.

La lezione

Testo della lezione

Il gattopardo – la mafia – il padrino

Vorremmo qui proporre una lettura del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e del poco successivo film omonimo di Visconti, come una sorta di introduzione o sfondo circostanziato e dettagliato sull’ambiente storico, sociale ed economico in cui nasce la mafia siciliana, e vorremmo anche brevemente individuarne alcuni legami con le successive rappresentazioni sulla mafia, in particolare con il film Il Padrino, di Francis Ford Coppola.

Il romanzo inizia con un dettaglio significativo su vari fronti, innanzitutto per la storia d’Italia, poi per la saga familiare dei Salina, e infine anche per la storia della mafia. Si tratta della data, Maggio 1860, che segna lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, l’inizio della decadenza del Principe e della sua famiglia, e infine sancisce l’ascesa di una classe imprenditoriale dinamica e spregiudicata, formata in gran parte dagli amministratori che gestivano i beni dei nobili, i gabellotti, che si andavano arricchendo comprandone le terre, e che si riveleranno di fondamentale importanza per la nascita della mafia. È proprio nell’ambito di questa rivoluzione sociale ed economica, accelerata dall’annessione della Sicilia all’Italia, che gli storici collocano le origini della mafia. E in particolare nel fatto che il nuovo Regno d’Italia e il suo nascente apparato istituzionale non erano in grado di proteggere questa classe imprenditoriale, che si rivolse quindi a individui che avevano cominciato ad offrire un sostituto della sicurezza statale, una protezione criminale basata sulla violenza, vale a dire la nascente mafia.

Già nel primo capitolo del libro si susseguono segnali di questo cambiamento sociale, che è il Principe stesso a riconoscere grazie all’acuta e intelligente osservazione dell’atteggiamento dei suoi sottoposti, nonché del loro modo di vestire che per tutto il romanzo sottolineerà i mutamenti dei rapporti sociali tra i personaggi. Di “Russo, il soprastante, l’uomo che il Principe trovava più significativo fra i suoi dipendenti”, si dice, “Svelto, ravvolto non senza eleganza nella ‘bunaca’ [giacca, n.d.r.] di velluto rigato, con gli occhi avidi sotto una fronte senza rimorsi, era […] la perfetta espressione di un ceto in ascesa” (p. 48). E in Don Ciccio Ferrara, il contabile, “un ometto asciutto che nascondeva l’anima illusa e rapace di un liberale dietro occhiali rassicuranti e cravattini immacolati”, e che si rallegra alla notizia dello sbarco di Garibaldi, il Principe riconosce il prototipo di “una delle classi che sarebbero divenute dirigenti” (p. 46/7).

Ovviamente il tipico rappresentante del nuovo rampante capitalismo siciliano è Don Calogero con i suoi modi astuti e spericolati di fare affari, di salire la scala sociale, attraverso il matrimonio di Angelica, e di penetrare nel nuovo assetto politico, riuscendo ad assoggettare con la manipolazione e la violenza le deboli istituzioni statali. In questo caso è Ciccio Tumeo, l’organista compagno di caccia del Principe, a rivelare a lui e a noi lettori il modo di operare di Don Calogero.

“La verità, Eccellenza, è che don Calogero è molto ricco, e molto influente anche […] è successo che molta gente ora dipende da lui; e poi quando è amico, è amico, […] Intelligente come un diavolo, del resto: Vostra Eccellenza avrebbe dovuto vederlo nella primavera scorsa: andava avanti e indietro in tutto il territorio come un pipistrello, in carrozzino, sul mulo, a piedi, pioggia o sereno che fosse; e dove era passato si formavano circoli segreti, si preparava la strada per quelli che dovevano venire. […] E ancora non vediamo che il principio della sua carriera! Fra qualche mese sarà deputato a Torino, e fra qualche anno, quando saranno posti in vendita i beni ecclesiastici, pagando quattro soldi, si prenderà i feudi di Marca e di Fondachello, e diventerà il più gran proprietario della provincia. Questo è don Calogero, Eccellenza, l’uomo nuovo come dev’essere; è peccato però che debba essere così” (p. 142/43).

Un comportamento che noi non possiamo che definire proto-mafioso. Come lo è anche la spregiudicatezza che dimostra, parliamo sempre di Don Calogero, nell’eliminare chi gli dà fastidio, per esempio il suocero, il padre della moglie Bastiana, Peppe ‘Mmerda, “Due anni dopo la fuga di don Calogero con Bastiana lo hanno trovato morto sulla trazzera [viottolo tra i campi, n.d.r. …] con dodici ‘lupare’ nella schiena. Sempre fortunato don Calogero, perché quello stava diventando importuno e prepotente” (p. 144).

O l’astuzia con cui comprende la necessità di controllare i meccanismi politici, manipolandoli a suo vantaggio. Pensiamo alla falsificazione dei risultati del Plebiscito per l’annessione al Regno d’Italia. È sempre Don Ciccio, parlando con il Principe durante una sosta nella caccia, a rivelarcelo. Quando il Principe gli chiede come avesse votato, Don Ciccio, un po’ preoccupato, dapprima risponde diplomaticamente, dicendo, “Scusate, Eccellenza, la vostra è una domanda inutile. Sapete già che a Donnafugata tutti hanno votato per il ‘sì’, mentre in seguito sbotterà (p.129), “Io, Eccellenza, avevo votato ‘no’. ‘No’, cento volte ‘no’” (p. 136).

Travolta da questi rivolgimenti politici e sociali, la vecchia leadership siciliana risponde con un atteggiamento passivo, ambiguo e opportunista nei confronti del nuovo assetto politico e in questo modo non fa che accentuarne lo scollamento dal tessuto sociale del paese e sottolinearne la debolezza. Lo vediamo chiaramente nel discorso tra Chevalley, l’emissario del nuovo Regno, e il Principe. Chevalley propone al Principe la posizione di senatore nel Parlamento che andava costituendosi, con il preciso intento di coinvolgerlo nella ricostruzione del suo paese, ma il Principe non solo rifiuta (adducendo ragioni confuse ma molto interessanti sul piano antropologico), ma avanza addirittura la candidatura di Don Calogero.

A proposito dell’atteggiamento opportunista della nobiltà siciliana, non possiamo non citare la frase più nota del libro, “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Compare all’inizio del romanzo, poco dopo che il Principe ha ricevuto la notizia dello sbarco di Garibaldi, ed è pronunciata da Tancredi che annuncia allo zio di volersi unire ai garibaldini. “Sei pazzo, figlio mio!” gli risponde il Principe, “Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re.” “Per il re, certo”, ribatte Tancredi, “ma quale Re? […] Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” (p. 42). Tra l’altro qui compare per l’unica volta la parola “mafia”, con un’accezione diversa da quella attuale, ma che comunque getta la sua ombra inquietante sulla scena.

***

Il film omonimo del 1963 di Visconti all’inizio segue il romanzo di Tomasi di Lampedusa fedelmente, per poi scostarsene alla fine, inviando in questo modo un messaggio nettamente differente da quello del romanzo, e particolarmente significativo per la nostra tesi – la storia della mafia. La fine del romanzo è totalmente nihilista, il cane Bendicò viene gettato in cortile per essere portato via dall’”immondezzaio” e durante il volo giù dalla finestra per un momento sembra prendere la sagoma del gattopardo, per poi diventare “un mucchietto di polvere livida”, mostrando la fine di un mondo, senza appelli, senza nessuna prefigurazione di un futuro. Il film invece alla fine ci dà un’idea molto precisa di quali saranno i protagonisti del futuro e di come lo amministreranno. Non sarà più il Principe, che nell’ultima scena si allontana lungo un viottolo di una Palermo notturna, triste e derelitta, uscendo, solitario, di scena. Ma sarà Don Calogero, infatti, ad avere le ultime parole. E che parole! Don Calogero è in carrozza insieme a Tancredi e Angelica, e stanno ritornando a casa dalla festa in cui Angelica è stata presentata alla società nobiliare palermitana. Sullo sfondo si odono i colpi di fucile con cui vengono giustiziati i garibaldini. E don Calogero commenta soddisfatto, “Bell’esercito, fa sul serio. È proprio quello che ci voleva … per la Sicilia. Ora, possiamo stare tranquilli”. Cosa può volere di più il genero di Peppe ‘Mmerda? Sua figlia Angelica ha avuto un successone alla festa, sta per sposare Tancredi, che ha di nuovo cambiato bandiera, ora è diventato ufficiale dell’esercito di Vittorio Emanuele, e sta per essere nominato in parlamento. Don Calogero è riuscito a mettere le mani su tutto, Stato, esercito, società, ha anche – con qualche ritocco da parte di Tancredi – imparato a vestirsi!

Il film di Visconti ci offre anche un collegamento a un altro aspetto della storia della mafia, quello delle sue rappresentazioni, in particolare nel cinema. È infatti uno dei grandi modelli delle rappresentazioni della mafia – e della Sicilia – nel cinema, in primis del Padrino di Coppola, come afferma Elizabeth Leake, docente alla Columbia University, “Luchino Visconti’s eponymous film from 1963 can be thought of as the mother of all Italian Mafia movies”, e in seguito aggiungerà, “The Godfather is The Leopard translated into American vernacular”.

Le analogie tra i due capolavori cinematografici sono evidenti a chi li conosce bene, e sono state esplorate ampiamente dai critici, ci limiteremo quindi a enumerane alcune, più che a svilupparle: in entrambe le opere la Sicilia è rappresentata come esotica, enigmatica, raffinatissima e primitiva e violenta al contempo. Uno sfondo che contribuisce a conferire un’aura romantica a eventi e personaggi le cui connotazioni sia storiche che tradizionali sono sottolineate dalla musica, in entrambi i casi opera del compositore Nino Rota. In entrambi i casi siamo di fronte a lavori storici, con vicende che si dipano attorno a una famiglia, a un passaggio di potere, a un cambiamento di amministrazione, ecc.

***

Per concludere vorremmo tornare al romanzo e proporre invece un collegamento tra esso e il film il Padrino. Ci pare infatti di trovare una qualche somiglianza tra la fine di queste due opere. Protagoniste di entrambi i finali sono infatti le donne, in particolare due donne – Concetta e Kay – che prendono coscienza delle circostanze in cui hanno vissuto e vivono. Nell’ultimo capitolo del romanzo ritroviamo le donne della famiglia Salina cinquant’anni dopo l’inizio della storia: sono le uniche della famiglia a essere sopravvissute, sono anziane, nubili e leggermente folli nelle loro manie di raccogliere reliquie. Angelica, a dir la verità, ha ancora delle velleità mondane, è coinvolta nell’organizzazione dei festeggiamenti del cinquantenario dell’Unificazione d’Italia e va a trovare Concetta con il proposito di invitarla. Con Angelica c’è il senatore Tassoni, il vecchio amico di Tancredi, che rivela a Concetta che Tancredi era stato innamorato di lei. Non è la prima volta che il narratore vi accenna. Riportando i pensieri di Tancredi nei confronti della cugina che lo voleva e che si rifiutava di accettare altri, commenta, “Già: Concetta voleva lui, non era così? Anche lui la aveva voluta un tempo: era meno bella, assai meno ricca di Angelica, ma aveva in sé qualcosa che la donnafugasca non avrebbe posseduto mai” (p. 195/96).

Tancredi riconosce in Concetta un Gattopardo. Che essa fosse, caratterialmente, l’erede dei Salina, lo si poteva effettivamente scorgere lungo tutto il romanzo, e in particolare nella tardiva consapevolezza del Principe quando, in punto di morte, fa il bilancio della sua vita. E tra i punti in attivo elenca “la contentezza provata quando si era accorto che nella bellezza e nel carattere di Concetta si perpetuava una vera Salina” (p. 296). Ma Concetta non l’aveva saputo o capito e la tardiva rivelazione per lei è devastante. Capisce di essere la principale responsabile di una vita che si è costruita sul rancore e i rimpianti. Troppo orgoglio? I tempi non ancora maturi per dare alle donne la possibilità di cambiare la Storia, con la esse maiuscola, oltre che una storia personale e familiare?

Anche nel film di Coppola la fine è interpretata da una donna, Kay, che prende coscienza di sé; nel suo caso capisce di essere sposata a un uomo che le mente e che è un criminale. Lo vediamo dall’espressione perplessa e angosciata del suo volto mentre la porta si chiude su suo marito Michael attorniato dai suoi accoliti che gli baciano la mano, incoronandolo nuovo Padrino. Ma Kay è americana e ha gli strumenti, culturali e sociali, per reagire. Nelle successive puntate del Padrino vediamo che non accetterà la parte di moglie compiacente, se non complice, e che avrà un ruolo importante nella rovina del marito, sconvolgendo le coordinate su cui si fonda il mondo di lui.

Sappiamo ora, dalle recenti cronache della lotta contro le mafie, che il ruolo delle donne, non solo nel denunciare, ma soprattutto nel rifiutare di sostenere le regole di quel mondo brutalmente patriarcale, è cruciale. Ci piace quindi pensare che queste due donne immaginarie possano fornire un modello di non conformismo, anche se a caro prezzo.

Bibliografia essenziale

Per quel che riguarda la storia della mafia siciliana, si sono usati due testi complementari, John Dickie, Cosa Nostra: A History of the Sicilian Mafia (Palgrave Macmillan, 2005), ricco di aneddoti; e Salvatore Lupo, Storia della mafia: La criminalità organizzata in Sicilia dalle origini ai giorni nostri (Donzelli Editore, 2016), di cui c’è anche una traduzione inglese, History of the Mafia (Columbia University Press, 2011). Quest’ultimo testo ha un carattere più accademico/storiografico.

Estremamente interessanti sono anche gli studi sulla mafia di Federico Varese, docente di criminologia all’Università di Oxford, di cui segnaliamo: Mafias on the Move: How Organized Crime Conquers New Territories (Princeton University Press, 2013)

Per le analisi sulle rappresentazioni cinematografiche della mafia, si veda Dana Renga, Mafia Movies: A Reader (University of Toronto Press, 2013), in particolare l’articolo di Elizabeth Leake, “Prototypes of the Mafia: Luchino Visconti’s The Leopard”.

Per il capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, si è usata l’edizione Feltrinelli del 1959.

Per il film di Luchino Visconti, Il Gattopardo, si è usato il DVD (edizione Regno Unito) con i sottotitoli in inglese, mentre per il film di Francis Ford Coppola, Il Padrino,  la trilogia di DVD in lingua inglese e italiana, Paramount Pictures (produzione).

Ulteriori suggerimenti

Per scaricare la lezione in pdf, clicca qui: INC_Lezione sul gattopardo

Per la biografia di Maria Sepa, una delle curatrici di questo blog, si veda About Us/People

Vi invitiamo a esplorare gli articoli sulla mafia pubblicati sul blog, cominciando a cercarli attraverso la categoria “mafia”