(fonte: Cosmopolitan)
Nel 1987, la linguista Alma Sabatini redigeva per incarico della Presidenza del Consiglio dei ministri e della Commissione nazionale per la Parità e le Pari opportunità tra uomo e donna le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. Di anni ne sono passati ma i nomi femminili continuano a essere argomento di dibattito. Non sono tanto un problema a livello grammaticale, dato che, come spiegava già Sabatini, la lingua italiana prevede regole molto chiare per rendere le parole al maschile o al femminile. È piuttosto un dilemma culturale che, nell’ultimo periodo, sta emergendo soprattutto nelle aule del Parlamento, dove parole come “segretaria di partito”, “sindaca”, “ministra”, “questora” sono ormai terreno di scontro politico.
[…] Il dilemma scalda gli animi. Certo, nessuno ha da ridire quando si tratta di nomi di professioni tipo “cameriera”, “operaia”, “parrucchiera” o “maestra”. A stridere sono sempre i femminili di quelle professioni che sono state aperte alle donne solo relativamente di recente: magistrata, ingegnera, avvocata, architetta. Si può dire che «suonano male», ma non che sono sbagliati grammaticalmente (nonostante dibattiti e voli pindarici sulle loro origini linguistiche si sprechino).
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Per chi fosse interessato a questa discussione segnaliamo anche questi articoli:
IlSole 24 Ore del 1 luglio dal titolo «Come potenziare l’italiano, in genere» di Vera Gheno e Gigliola Sulis
Per capire meglio a che cosa fa riferimento l’articolo, leggi anche:
Corriere della Sera del 21 luglio: «Multa da 5mila euro a chi scrive “avvocata” o “sindaca”: ddl choc della Lega contro l’uso del femminile negli atti».